Vorrei condividere con voi una riflessione su come il concetto di brand reputation si sia evoluto con l’avvento della rete. Mi è capitato di imbattermi nella lettura di diversi casi di aziende che si sono esposte sul web senza però conoscerne le dinamiche e senza considerare i rischi a cui sarebbero potute andare incontro nel caso in cui le politiche adottate sia online che offline non fossero proprio corrette e trasparenti.
Molto dibattuto il caso John Ashfield. Protagonista Sybelle, che aveva postato sul suo blog un commento negativo su una campagna stampa di John Ashfield, seguito da un post anonimo che accusava l’azienda di produrre in Bangladesh e non in Irlanda e Scozia. Anziché risolvere la questione attraverso il dialogo e il confronto, l’azienda ha prima censurato il blog, e poi lo ha riattivato cancellando il post incriminato, tenendo Sybelle all’oscuro di tutto anziché cercare il dialogo con lei o con gli autori dei successivi post considerati infondati. L’azienda ha poi cercato di cavarsela scrivendo a Sybelle una lettera dai toni accusatori, insinuatori e offensivi, e postandola poi su tutti i blog che avevano discusso del caso, invece di rivolgersi direttamente e personalmente ai blogger, scatenando così molti commenti negativi in rete che non hanno di certo agevolato alla brand reputation dell’azienda.
Un altro caso di cattiva gestione delle relazioni online riguarda i lucchetti dell’azienda Kryptonite, che subì un grosso danno d’immagine a seguito di un post pubblicato su un forum, che svelava come aprire questi lucchetti utilizzando una penna Bic. Immediata la diffusione della notizia nella blogosfera, con tanto di video dimostrativi, e successivamente sui network televisivi statunitensi. Nessuna reazione da parte dell’azienda, che optò per il silenzio, e nel frattempo spese 10 milioni di dollari per sostituire i lucchetti difettosi, convinta che i suoi clienti non leggessero i blog. Invece per molto tempo googlando il nome dell’azienda comparivano ai primi posti della SERP articoli critici sul caso, cosa che non sarebbe successa se l’azienda avesse partecipato in modo costruttivo al dialogo.
Ultimo caso che vorrei condividere con voi riguarda Ryanair. Jason Roe scopre un bug nel sito della compagnia, che gli permette di prenotare voli a costo zero. Pubblica un post a proposito, e tra i commenti di stupore per la storica impresa, ne spicca uno anonimo di insulti che si scoprirà poi essere di un dipendente Ryanair, seguito a ruota da altri colleghi che pubblicano commenti aggressivi e maleducati. Ryanair, anziché intervenire ufficialmente per scusarsi e smorzare i toni, magari rimproverando lo staff, rilascia una dichiarazione al Times Online in cui definisce i blogger “lunatici e idioti”e si rifiuta di prestare attenzione alle conversazioni in rete. Grosso controsenso per un’azienda il cui core business è online. Per non perdere la faccia sarebbe bastato ringraziare Jason per la scoperta oppure, una volta scoppiato il dibattito, scusarsi ufficialmente e trasformare questa situazione negativa in un’opportunità di ascolto, confronto e dialogo.
Si deduce da casi come questi che censurare, minacciare, tacere e non ascoltare o non concedere diritto di parola al popolo online sono atteggiamenti sbagliati, soprattutto se un’azienda decide di esporsi sul web.
Ma allora, quali principi deve seguire un’azienda nella gestione della propria brand reputation online? Ecco uno schema esplicativo di quello che un’azienda dovrebbe fare:

brand_reputation_management

Aggiornamento del 02.03.2011: schema di Davide Basile vedi http://blog.tagliaerbe.com/2009/05/brand-reputation-management-20.html

  • Monitorare: per comprendere come funziona l’ambiente del web 2.0 e le sue regole;
  • Condividere con gli utenti informazioni, sia corporate che di prodotto, in tutta trasparenza;
  • Partecipare attivamente alle conversazioni che la riguardano con un proprio blog o account sui social media o creando occasioni di dialogo e confronto diretto.

Numerose sono, d’altro canto, le aziende che in rete “ci hanno messo la faccia” in maniera consapevole e adottando il giusto approccio/atteggiamento. Citandone alcune: Barilla che “Nel Mulino che vorrei” riunisce i consumatori in una community in cui proporre, votare e condividere idee; ATAC, l’azienda romana di trasporti pubblici, che tramite un account twitter fornisce segnalazioni su deviazioni, guasti, traffico ponendosi in modo “umano” conversando e risolvendo dubbi; Ford che integrando i social media nella sua strategia di comunicazione sottolinea la trasparenza aziendale e dialoga con i clienti (Twitter viene usato in prima persona dal responsabile Ford per rafforzare il lato umano); ed infine Famiglia Cristiana, che con l’iniziativa “Il più simpatico del Vangelo” invita i lettori a votare il personaggio preferito attraverso un’apposita applicazione sulla sua pagina Facebook.
Ascoltare, dialogare, informare, stimolare, chiedere pareri e condividere è il modo giusto di porsi di fronte a quelli che non sono più solo consumatori ma prosumer, testimonial, dialogatori di esperienza di marca/prodotto. Perché la reputazione di un’azienda nasce dalle persone, ovvero dai clienti – e dai dipendenti – dell’azienda stessa.
E tu, conosci altri casi di successo/insuccesso di gestione della brand reputation in Rete? Condividili qui con noi.
Federica Rossi